Questo è un Paese per vecchi

Milan Night

seedorf Questo è un Paese per vecchiL’Italia è un Paese di vecchi. Lo dice l’Istat, lo raccontano le statistiche demografiche. E’ un Paese di vecchi che non accettano di invecchiare. E che non si schiodano, chiudendo pure le porte ai giovani. Succede in politica, dove pochi anni fa un quasi novantenne con una cinquantennale carriera alle spalle tentò ancora il colpo di farsi eleggere presidente del Senato. Succede nella finanza, dove le dimissioni dei vertici dei grandi potentati spesso coincidono con la morte naturale degli stessi.

A questo andazzo non fa eccezione nemmeno il calcio, sempre più inflazionato da giocatori vicini agli «anta» che non ne vogliono proprio sapere di appendere gli scarpini al chiodo e di godersi la vita con le palate di soldi guadagnati in carriere ventennali. E così, nel bel mezzo del rush finale il cui esito decreterà il vincitore del campionato di Serie A 2011-2012, puntuali come un orologio atomico, i veterani dei vari club tornano a bussare alla porta delle società per pietire l’ennesimo rinnovo.

Questa settimana a fare discutere non è stato il Milan (che in rosa di giocatori maturi in scadenza ne ha ben 8: Van Bommel, Gattuso, Ambrosini, Seedorf, Yepes, Zambrotta, Inzaghi e Nesta) ma la Juventus, dove il capitano di una vita, Alessandro Del Piero, si è giocato una delle ultime carte a disposizione in un’intervista a Vanity Fair. Facendo notare, tra le righe, di non aver gradito l’annuncio di Andrea Agnelli, di voler giocare ancora a pallone e di sognare di farlo ancora con la maglia bianconera. La storia si ripete e il fatto che succeda al Milan o alla Juventus conta davvero poco. Il punto è che qui nessuno vuole mai fare un passo indietro. A pensarci bene è assurdo, quasi paradossale.

Già, perché a ben vedere la Juve non deve nulla a Del Piero. E Del Piero non deve nulla alla Juve. La storia è stata lunga, ricca di successi reciproci e reciprocamente soddisfacente. E se i tifosi che spingono per il rinnovo del loro capitano hanno ancora negli occhi tutte le reti decisive e i trofei che Del Piero ha contribuito a far vincere alla gobba, qualcuno ai piani alti potrebbe invece ricordare tutte le volte che il numero 10 ha tirato la corda sui rinnovi contrattuali, tutti i tira e molla per spuntare accordi più vantaggiosi. Tutto legittimo, intendiamoci. Tutto giusto. Però non si dica che Del Piero avrebbe meritato altro.

Del Piero ha avuto quello che ha meritato. Una carriera straordinaria, pagata fior di soldi, in una delle squadre più importanti, prolungata fino a 38 anni. E quando è il momento di chiuderla, questa carriera, è dovere del grande campione quello di farsi da parte senza aspettare il giorno in cui ti prendono cordialmente sottobraccio e ti fanno accomodare alla porta. Questo vale per Del Piero come per i nostri irriducibili senatori che non perdono occasione per ricordare a taccuini e microfoni che di lasciare il Milan, nonostante l’età, non ci pensano nemmeno. La storia si ripete. Prima i vari Maldini e Costacurta, oggi i Seedorf e gli Ambrosini. Succede solo nel calcio.

In altri sport i grandi campioni si fanno i migliori anni della carriera in una squadra alla quale legano il proprio nome (nel basket Micheal Jordan, nell’hockey Wayne Gretski, nel football Brett Favre) e poi scelgono una compagine di seconda fascia o una squadra in cerca di rilancio per concludere la loro parabola sportiva. Nel calcio no, soprattutto in Italia. Qui ci si arrocca, non ci si rassegna. E questo non significa attaccamento alla maglia. Significa attaccamento ai propri interessi, ai propri comodi. Tanti parlano di attaccamento alla maglia, tirando anche fuori improbabili vene romantiche. Amore per la casacca, per i colori, per la squadra significa anche e soprattutto mettere gli interessi del club prima dei propri. E significa, quindi, capire quando è il momento di levare le tende, quando non si rientra più – a torto o a ragione – nei piani tecnici dell’allenatore, quando è ora di lasciare spazio alle nuove leve. E signfica soprattutto evitare in ogni modo il rischio di minare l’ambiente e di avvelenare il clima con interviste e uscite pubbliche che sicuramente mettono in difficoltà chi deve fare determinate scelte, in panchina come alle scrivanie dei piani alti.

Invece no. La prassi è quella di provarci, sempre, a strappare l’ennesima proroga, l’ennesimo rinnovo. Senza considerare che spesso è meglio chiudere in bellezza piuttosto che farlo in sordina. Pensate quanto sarebbe stato bello, emozionante, per il grande Pippo Inzaghi, chiudere la sua esperienza rossonera dopo le due reti al Real Madrid in Champions, alle quali è seguito un infortunio che avrebbe messo ko anche un venticinquenne. Avrebbe chiuso da eroe. Finale molto più suggestivo di quello che sta vivendo ora, costretto ai margini di una rosa alla quale oggi come oggi non può più dare quel contributo decisivo che il bomber d’Europa ha offerto in dieci anni.

Forse la colpa di questi tormentoni è anche delle società, che spesso non hanno mostrato la giusta fermezza quando si trattava di dire arrivederci e grazie. Ma le critiche della tifoseria bianconera alla politica del proprio presidente, che in tempi non sospetti ha voluto mettere in chiaro che questa, per Del Piero, sarebbe stata la sua ultima stagione sotto la Mole, dimostrano che il campo è minato.

E che soprattutto nel calcio, come ti muovi sbagli.

Marco Traverso

@marcotraverso75

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