Canale Milan
Se questo fosse uno spazio editoriale banale e canonico, forse, dovrei star qui ad angustiarvi (o allietarvi? Questo dovete dirmelo voi) con le mie, tutte smentibili, teorie e rendiconti sul calciomercato. Attaccare il Milan per la sua politica incomprensibile; venerare la Juventus, per la sua strategia vincente e decisa; o, in ultima battuta, andare a far le pulci ad un’incomprensibile telenovela di mercato come quella appena conclùsasi e che ha al centro Mattia Destro.
…E chissà cos’altro. Perché, dicono, quello che deve fare il giornalista è batter l’attualità, per farsi leggere. Ma io, che un giornalista, almeno in senso stretto, non sono, oggi, preferisco parlar d’altro. E raccontarvi una storia.
Una delle più belle di questa finestra: sia di calcio, che di mercato. Destinata, proprio perché sommersa dalle trattative, a passare sotto traccia. Perché pare faccia più notizia l’interesse dello United per Lucas o del City per Van Persie. Inspiegabilmente, aggiungo.
Chissenefrega. Io ve ne racconto un’altra, di storia. E bellissima. E poco importa se già ve l’avevo raccontata nel 2009, nel 2010, e per ben due volte nel 2011. Questa é una storia senza tempo. Come il suo protagonista.
Il campetto è quello generalmente desolato ed assonnato, ma virale, degli allievi. Hanno tutti tra i 15 ed i 16 anni. Le partite hanno spesso ritmi altalenanti, e vedono minuti intensissimi alternati ad altri che non passano mai. In campo, la maggior parte dei ragazzini, però, neanche dimostra quell’età. Soprattutto i difensori e gli attaccanti. Alcuni sono già alti quasi un metro e ottanta, e sono quelli anche generalmente meglio visti dagli allenatori.
E’ il pomeriggio d’una qualunque domenica d’autunno del 1988. Oppure del 2012.
Presto capirete il perché di tale indeterminatezza.
I ragazzi del mister sono sotto 0-1. Hanno corso, sudato, lottato per oltre ottantacinque minuti, ma nonostante tutto i padroni di casa non riescono in alcun modo a recuperare quel maledetto gol di svantaggio. La partita vale molto, anzi, moltissimo. Non perché ci si giochi una Champions League o un premio partita di spessore, no. Non perché in ballo ci siano milioni di euro, la reputazione, la gloria degli annali. E’ solo una sfida a pallone tra allievi. Tra ragazzi di 15 e 16 anni, che affrontano la vita con la stessa gioviale spregiudicatezza con cui ne affrontano la più esaustiva delle metafore: una partita di calcio.
Il mister è lì, tenebroso, concentrato, immerso in un maestoso silenzio che non scandisce gli attimi, ma li esaspera. Ha le maniche della camicia rivoltate in su, gli aloni sotto le ascelle, la fronte sudata e rugosa, il ciuffo che gli cade sinuoso sulla fronte corrucciata e le vene del collo così gonfie che sembrano tronchi d’acero canadese.
Sinora la ha provate tutte. Ma anche quando il suo regista ha calciato sul palo il rigore che poteva valere il pari, non ha smesso di crederci. La folla – che poi non è altro che composta dai tanti ed esagitati genitori dei bambini – lo rincuora, pur non risparmiandogli alcuna sottigliezza. Ogni qual volta che uno dei centrocampisti si appropinqua all’area avversaria l’occhio gli si sbarra, ed i pensieri corrono rapidamente: lui, il movimento che la punta dovrebbe fare per ricevere nel modo migliore, nel momento migliore e nel posto migliore la palla per concludere a rete, lo sa già. Lui, quel movimento, così perfetto da sembrare goffo e casuale, l’ha fatto tante di quelle volte che per enumerarle non basterebbe un calcolatore del 2050.
E quando anche l’ennesima occasione sfuma, il mister si gira verso l’altrettanto sofferente panchina. Ha ancora una sola sostituzione a disposizione: è giunto il momento di farla. La chiamano ‘mossa della disperazione’, forse impropriamente. Perché in molti, quella mossa, la fanno solo perché sanno che è giusta. E non perché sono disperati.
L’occhio languido scorre rapace e passa in rassegna, uno ad uno, i ragazzini seduti in panchina. Quelli con la maggior ambizione fremono, quelli con la peggior autostima guardano altrove. Uno di loro, invece, è freddo, quasi glaciale. E’ talmente concentrato e volitivo che neanche sembra avere 15 anni. Il mister lo conosce poco, è arrivato solo da pochi giorni. Di ruolo pare faccia la punta centrale, ma in molti sono convinti che, con quel fisico lì, striminzito e mingherlino, e quella chioma morbida e fluente, starebbe meglio a fare l’indossatore per le baby-sfilate di moda di chissà quale stilista. Il mister lo chiama a sè. Gli altri, delusi, ritmano un semicerchio orizzontale col viso, quasi a voler sventolare bandiera bianca.
“Allora, ragazzo, adesso entri tu. Sei pronto?”.
“Sono sempre pronto, mister”.
“Bravo. C’è una sola cosa che devi fare: gol. Tutto il resto non importa. Sai come fare?”.
“No, mister. Però so che se lo voglio fortissimamente, ci riuscirò”.
“Non devi solo volerlo. Devi amarlo, il gol. E contemporaneamente devi far sì che il gol ami te. E’ questo, il segreto. E adesso và, ed innamorati. Perché non c’è niente di meglio che tu possa fare, quando giochi a pallone”.
Il mister chiama l’arbitro, gli segnala la sostituzione. Esce un difensore, entra il ragazzo mingherlino dal ciuffo sbarazzino. Si mette davanti, tra l’ariete e la seconda punta, lancia un’occhiata convinta al trequartista. Poi comincia a muoversi, su e giù, rapido come una gazzella, ma scoordinato tanto da provocare i ridolini dei due rocciosi difensore avversari. Anche perchè l’arbirtro non ha ancora fischiato il riavvio dei giochi.
Quando il fischietto suona, si riparte da una punizione in difesa per i padroni di casa.
Il lancio arriva a centrocampo, dal bati e ribatti ne esce vincitore un biondino lentigginoso, che apre al terzino. Quando quest’ultimo prende palla, nel ragazzino prescelto dal mister s’innesca qualcosa. Un movimento incomprensibile ed irrequieto, che depista il suo marcatore, e lo porta indietro, quasi a voler farsi dar palla. Il terzino, invece, va dritto, ed arriva quasi fino al fondo. Crossa. L’altro difensore spazza. La palla torna sulla trequarti.
La raccoglie il trequartista, è un buon tiratore, il mister lo sa già, il ragazzo mingherlino no, ma lo intuisce. E sia il mister sia il ragazzo capiscono che sta per tirare in porta.
E’ in quest’istante, prim’ancora che accada, che il mister, nella sua mente levigata da decenni di momenti come questo, che descrive una traiettoria, anzi due: quella del tiro, quella della respinta del portiere. Poi, una luce abbagliante, che indica lì dove andrà a finire la palla. Il mister alza lo sguardo, cerca il punto dell’area che quella luce gli ha regalato. E lì si rende conto che c’è già quello scricciolo d’uomo. Non era l’unico ad aver previsto tutto questo.
Tiro, respinta, gol. Il mister non ha fatto neanche in tempo a capacitarsi della presenza di quel ragazzino al posto giusto, e nel momento giusto, che l’apoteosi del gioco più bello del mondo s’è già realizzata.
La vena si sgonfia, e con essa i polmoni, che si lasciano andare ad un urlo talmente forte che zittisce quello di tutti gli altri calciatori e tifosi messi insieme. Solo un altro grido, sul verde del campo, si sovrappone al suo: quello del bambino che gli ha regalato il pari. Corre verso di lui, gli salta tra le braccia, il mister ed il bambino si guardano: sono commossi, si, ma ancora trasudano concentrazione per quel gol che avevano voluto, e previsto, fortissimamente, entrambi.
“Come hai fatto, come hai fatto a sapere che sarebbe finita lì la palla, ragazzino?”.
“Non lo so, mister, lo sapevo, lo sapevo e basta! Ho fatto come mi ha detto lei, ho visto il gol, e me ne sono innamorato, prima di chiunque altro. E siccome lo amo più di chiunque altro e più di qualunque cosa, anche lui s’è innamorato di me, e da me è venuto: è andata così!”.
“Bravo ragazzino, continua ad amarlo. Adesso sei l’eroe di questa squadra, ma dimmi, come ti chiami?”.
“Mister, mi chiamo Pippo, proprio come lei”.
Da poche ore sappiamo che quella del 13 maggio 2012 è stata l’ultima volta, e l’ultimo gol, di Filippo Inzaghi. Farà l’allenatore, cominciando dagli allievi. Cercherà di insegnare ai portieri ed agli stopper come ci si difende, da quelli come lui; ai centrocampisti come si servono quelli come lui; ed agli attaccanti a fare, il più possibile, gol come faceva lui. Il suo futuro è molto incerto, come spesso accade a chi cambia vita, dopo anni ed anni.
Una cosa, però, Inzaghi la sa: che quel dono immaginifico e unico che chissà mai chi ha dato a lui, da ragazzino, non potrà insegnarlo. Quello è suo, e, forse, di nessun altro.
Nessun altro che non sia lui, che non si chiami Pippo, e che non vada in campo solo per divertirsi, ma anche per innamorarsi. E cercare un gol che lo ricambi.
Magari un giorno accadrà davvero, e magari andrà, più o meno, come l’abbiamo raccontata noi. E se anche dovessimo attendere una vita, non ci preoccupiamo. Quelli come noi sanno aspettare.
Perché questa, come vi dicevo prima, è una storia senza tempo.
« Non è Inzaghi ad essere innamorato del gol, è il gol ad essere innamorato di Inzaghi »
[Emiliano Mondonico]
di Alfredo De Vuono
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Post Originale:
La storia senza tempo di Inzaghi, colui che insegnò a se’ stesso ad amare il gol e viceversa