Prima di Boateng: Gullit contro il razzismo

Ruud Gullitt

Amsterdam, metà anni settanta, due tredicenni in un negozio. Ad uno viene l’idea di rubare una barretta di cioccolato: ci si avvicina quattro volte, ma non ha il coraggio. Quando escono, ad essere fermato e portato alla polizia è però l’altro, colpevole di essere nero.

Passa più di un decennio e quel ragazzino, nato da padre surinamese e madre olandese, si trova in Italia, acquisto di punta del Milan di Berlusconi, a parlare di razzismo un quarto di secolo prima di Boateng e dell’amichevole con la Pro Patria. Ruud Gullit ha già incontrato il problema da calciatore, come quella volta in Scozia con i fischi e gli insulti: “Dirty negro” dicevano gli striscioni, ma “ho segnato pure un gol, così hanno imparato che anche con la pelle scura si può giocare al calcio“. O  quando, unico nero nella rosa dell’Harlem, viene perquisito “come un delinquente” alla frontiera francese, scatenando la rabbia dei compagni di squadra.

Non ne fa, però, una questione personale, sottolineando il proprio status di calciatore famoso e quindi di privilegiato: “D’altra parte il problema esiste più per gli altri. Per me è un altro mondo, io sono in un altra situazione, ma io so che molti amici hanno tanti problemi con il colore. Nessuno fa del razzismo con me, ma con i miei amici sì”. Basta, peraltro, che l’alone da leggenda del calcio evapori per un istante per avvertire la discriminazione: come nell’estate del ’93, quando entra al panificio Lazzeri di Forte dei Marmi per comprare un pacco di biscotti e si vede trattare in malo modo: “Via, via. Ora basta. Sono già arrivati altri suoi amici, non voglio comprare niente, per favore”. Vestito in modo da non dare nell’occhio, l’olandese era stato scambiato per un venditore ambulante: “E come facevo a capire che quello era un grande campione? Aveva occhiali da sole impenetrabili, in testa un cappellaccio sgualcito ed era così trasandato.

Il razzismo, per chi dice di aver imparato ad accettare serenamente il fatto che qualcuno lo possa chiamare ‘brutto nero’, è una questione, per così dire, politica. Socio della Fondazione Anna Frank, l’attaccante, pur rendendosi conto di vivere le cose dall’esterno (“Non è la stessa cosa“), non perde occasione per scagliarsi contro l’Apartheid: in un video abbatte con una pallonata un pupazzo con la faccia del presidente sudafricano Pieter Willem Botha. Anche a Milano Gullit si batte per Nelson Mandela, allora in carcere: con i Revelation Time, gruppo reggae con cui incide la fortunata “South Africa” e che a lui, primo capitano nero della nazionale olandese, dedicherà “Captain Dread“, fa il tutto esaurito al Palatrussardi, cantando con indosso una maglietta nera con la scritta “Stop Apartheid“.

A Mandela è dedicato anche il Pallone d’Oro 1987: Ruud vorrebbe ricordarlo in un discorso alla folla di San Siro prima di un Milan-Juventus del maggio ’88, lo scudetto ormai ad un passo, ma la società si dimentica di chiedere l’autorizzazione alla Lega e restano sulle carta le parole con cui, oltre a ringraziare il PSV Eindhoven, la nazionale olandese, il presidente Berlusconi ed il tifo rossonero, viene evocato il leader dell’African National Congress “nella speranza che capiate quanto sia importante lottare contro l’apartheid, perché io credo che tutti abbiano il diritto di godere la propria libertà.

Qualche mese prima c’era stato addirittura un incontro, a Milanello, tra Gullit e Benny Neto, rappresentante in Italia dell’ANC: i due avevano posato per i fotografi mostrando un manifesto in favore dei “sei di Sharpeville“, condannati a morte senza prove, e l’attaccante aveva consegnato un messaggio per Mandela, destando qualche perplessità tra i colleghi: “Perché? Ma questa è una domanda sciocca, in Sudafrica c’è una situazione terribile, perché io non dovrei fare questo? Sarebbe una bella cosa se ci fosse una mobilitazione anche tra i calciatori contro queste cose“.

Gullit torna al centro del dibattito nel novembre ’92, in un periodo in cui la stampa registra continue notizie di violenze razziste in Italia e in Europa. L’olandese, oggetto degli insulti della Curva Nord interista nel corso di un derby, sottolinea le cause del fenomeno (“è un fatto di povertà economica, gente che non ha lavoro”) e propone delle misure per combatterlo: “Dobbiamo cominciare a decidere cosa fare contro i cori violenti, contro certe scritte. Bisogna dirlo al microfono, noi quegli striscioni, quegli insulti, i cori contro gli avversari non li vogliamo, smettete voi sulle gradinate o smettiamo noi in campo. Occorre che anche i presidenti prendano posizione. Ma non davanti a una telecamera: io sono questo, quello, e anche antirazzista. No. Voglio che prendano in mano il microfono prima della partita, che dicano: adesso basta, via quegli striscioni. Io dico che se lo fanno Berlusconi, o Agnelli, o Pellegrini, la gente li ascolta. Poi magari interviene anche la polizia, ma intanto qualcosa è successo“.

La proposta, tornata d’attualità nel 2013 dopo l’amichevole di Busto Arsizio e l’abbandono del campo da parte del Milan, non raccoglie grande successo: il capitano del Venezia, Francesco Romano, è allora tra i pochi a dirsi pronto a ritirare la squadra in caso di striscioni razzisti, mentre è di tutt’altro avviso Silvio Berlusconi, che suggerisce di mandare i tifosi razzisti al cinema, perquisiti e sorvegliati, a guardare le partite sul grande schermo, e di regalare loro una copia del diario di Anna Frank. Chissà cosa ne avrebbe pensato Boateng.

fonte: La Stampa, Repubblica, Il Corriere della Sera, l’Unità

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