Dal Lussemburgo a Wembley, la prima volta non si scorda mai

Milan Win The Cup

“Una cosa molto molto bella, ma da noi non era molto reclamizzata. Noi siamo stati accolti bene, ma non era ancora così popolare, anche perché le squadre italiane che partecipavano erano sempre eliminate” (C. Maldini)

“Il mio vero culo non è ancora venuto fuori fino ad ora” (J. Altafini)

Un ferro di cavallo: questo è il regalo che, a pochi giorni dalla finale di Coppa dei Campioni del 1963, fa a José Altafini il titolare di un maneggio vicino a Milanello.

Di un po’ di fortuna, in effetti, i rossoneri hanno bisogno. Presenti fin dall’edizione inaugurale della competizione, sono sempre andati a sbattere contro lo strapotere iberico: eliminati in semifinale nel ’56 dal Real Madrid di Di Stefano; sconfitti in finale nel ’58, di nuovo dalle merengues, ai tempi supplementari, (“il loro terzo gol un tiro che passò tra mille gambe“); fatti fuori brutalmente dal Barcellona di Helenio Herrera agli ottavi nel ’60.

Tutti quegli scalini, sembrava di non arrivare mai. Sarebbe stato più facile riceverlo in campo“, ricorda Cesare Maldini: il viaggio che porta a quegli scalini parte il 12 settembre 1962. In panchina siede Nereo Rocco, vincitore dello Scudetto alla prima stagione sulla panchina rossonera; a San Siro arriva l’Union Sportive de Luxembourg, per un incontro che persino il Fabio Caressa più lisergico faticherebbe a descrivere con toni epici. Lo scontro tra i campioni d’Italia e del Lussemburgo, che sui giornali riceve meno attenzione rispetto ai campionati europei d’atletica (e non molto più spazio di quello dedicato ad un’amichevole tra Juventus e Djurgardens), ha un esito scontato. Gli ospiti ce la mettono tutta, un tal Winady riesce addirittura a colpire un palo: peccato che il Milan nel frattempo abbia già segnato sette gol e sia in procinto di fare l’ottavo. Ottima occasione per José Altafini, che va in rete ben cinque volte, di porre solide basi per dominare la classifica marcatori fino alla fine del torneo. Anche la gara di ritorno nel Granducato è poco più che una scampagnata: 0-6 e tripletta per Altafini, mentre un certo Giorgio Rossano, destinato a non lasciare molti ricordi del suo passaggio, si toglie la soddisfazione di mettere a segno una doppietta. L’Union vincerà la sua prima partita europea soltanto otto anni dopo (un 1-0 al Göztepe di cui ci si può vantare con i parenti soltanto fino ad un certo punto).

Con gli ottavi di finale le cose si fanno un po’ più serie: l’avversario è l’Ipswich Town, capace di vincere, appena promosso nella massima serie, il primo e unico campionato della sua storia, e allenato da Alf Ramsey, che di lì a pochi mesi assumerà la guida della nazionale dei Tre Leoni, portandola al trionfo nel 1966. In una fredda serata di metà novembre, su un terreno umido e schierando tra i pali la riserva di Ghezzi, il “sempre incerto e paurosoMario Liberalato, il Milan prevale per 3-0: doppietta di Barison nel primo quarto d’ora, Sani chiude ogni discorso al 20′. Inutili le lamentele del capitano Andy Nelson, che accusa i milanisti di una condotta non proprio corretta: “tiravano i capelli, sputavano, pestavano i piedi“. La gara a Portman Road, lungi dall’essere considerata una formalità, desta preoccupazione. In campionato arriva un poco esaltante pareggio con il Mantova e la trasferta, con il pubblico assiepato a due metri dal campo, fa paura. Ramsay, d’altronde, è chiaro: “Attaccheremo alla disperata, più che il cervello conterà la forza“. Sospinti dai tifosi, in un fracasso infernale, gli inglesi giocano in effetti con uno “slancio furibondo“, parola di Vittorio Pozzo, mentre quella dei rossoneri è una partita esclusivamente difensiva, “catenaccio a oltranza“. I padroni di casa colpiscono una volta il palo e in tre occasioni la traversa, ma al 69′ è Barison a trovare il gol, per la gioia dei circa cento italiani presenti (tra i quali anche i 55 residenti in città); Crawford e Blackwood ribaltano il risultato nei venti minuti finali, consentendo ai Tractor Boys di inserire il Diavolo nella lista di grandi club sconfitti in Europa (destinata a comprendere Real Madrid, Barcellona e Inter, per fare qualche nome).

Il sorteggio dei quarti di finale mette di fronte Milan e Galatasaray, cosa che fa felice capitan Maldini: “Sono molto contento di incontrare il Galatasaray, perché in Turchia non ci sono mai stato. Sarà perché Istanbul è bella, sarà perché i cimbom, reduci dal loro primo trionfo nel campionato turco, non sono esattamente una corazzata: il 24 gennaio, su un campo fangoso, nel mezzo di una bufera di vento e neve, Uğur Köken porta i suoi in vantaggio dopo quattro minuti, ma il Milan ribalta il risultato e chiude sull’1-3. Tagliati fuori dalla lotta per lo Scudetto, i rossoneri si concentrano sull’Europa: in marzo la gara di ritorno è una passeggiata, un 5-0 con tripletta del solito Altafini e doppietta di Pivatelli. I problemi sono, al limite, tutti dei 3000 tifosi giunti a San Siro, in difficoltà a seguire il match a causa della fioca illuminazione.

Si entra così nelle prime quattro d’Europa, insieme a Dundee, Feyenoord e Benfica. Gli scozzesi, guidati da Bob Shankly (fratello del più celebre Bill), hanno eliminato Colonia, Sporting di Lisbona e Anderlecht e ora si ritrovano di fronte il Milan: albergo a Bergamo (nel capoluogo lombardo non c’era più posto), gita a Como e poi una capatina a vedere lo stadio, giornalisti italiani un po’ delusi di non trovare quei bestioni che si erano immaginati (a spiccare è un difensore alto 1,83). Il 24 aprile San Siro è finalmente vivo e brulicante, con quasi 80000 spettatori a sperare nella finale di Wembley; Rocco, che la domenica prima ha fatto riposare i vari Rivera, Mora e Trapattoni, ordina ai suoi di spingere al massimo per poter poi affrontare la trasferta caledone con tranquillità. Alla fine del primo tempo le cose non sono messe benissimo: alla rete di Sani risponde Cousin, centravanti nonché campione di cricket e insegnante di lingue. I rossoneri si scatenano nella ripresa, dominando e andando in rete con le doppiette di Barison e Mora. Al ritorno è un copione già visto: assedio degli scozzesi, botte per tutti, Milan che si difende strenuamente e limita i danni, perdendo di misura (1-0, gol di Gilzean).

Maggio, è tempo di finale. Da una parte il Benfica, vincitore delle ultime due edizioni della coppa, ancora autorizzato a non prendere sul serio la maledizione lanciata dall’ungherese Béla Guttman al momento dell’addio. Ad allenare i portoghesi in questa prima di cinque finali perse c’è Fernando Riera, primo cileno a giocare in Europa, “padre spirituale” di Manuel Pellegrini; Eusebio e compagni alloggiano in un albergo del centro, vicino al British Museum, mentre gli italiani, che portano con sé riso, polli e vino, hanno scelto di fare base a Richmond. Rocco ha già deciso di lasciare, troppi i conflitti con il direttore tecnico Gipo Viani, e vorrebbe chiudere l’esperienza con una vittoria prima di trasferirsi a Torino, sponda granata.

Scarso l’interesse degli inglesi, più interessati alla prossima finale di FA Cup. Alla fine, anche per colpa dell’orario (si gioca di mercoledì alle 15, alla luce del sole), ci saranno dei vuoti sugli spalti. Circa tremila i tifosi lusitani presenti, molti di più gli italiani arrivati da ogni dove: è il primo vero esodo calcistico per i tifosi rossoneri, decine di aerei partono alla volta di Londra. Per i milanisti rimasti a casa, invece, nessuna possibilità di assistere alla partita in diretta (la Rai opta per la differita in serata, alle 21), a meno di non riuscire a captare la televisione della Svizzera italiana o di accontentarsi del racconto alla radio (ma solo del secondo tempo).

I portoghesi fanno paura e Rocco opta per una formazione più catenacciara del solito: Barison viene fatto sedere in panchina e al suo posto gioca Pivatelli, “ala tattica” con il preciso compito di marcare Mário Coluna, centrocampista, detto O Monstro Sagrado e ci sarà stato un motivo. Il buon Gino andrà oltre i suoi doveri, mettendo fuori uso l’avversario con un tackle (e all’epoca non c’erano sostituzioni). Trapattoni deve occuparsi di Torres, il peruviano Víctor Benítez si incolla a Eusebio, che però al 18′ parte palla al piede e, arrivato dentro l’area, insacca con un destro a incrociare: da lì in poi, per ordine di Maldini (con la panchina, troppo lontana, non si riesce a comunicare) sarà il Trap ad occuparsi della Perla Nera (“Mi ricordo che mi diceva che ero troppo veloce“).

Nell’intervallo Rocco striglia tutti, urla, chiede più convinzione, la ottiene. Ci pensano Rivera e Altafini, tra il 58′ ed il 65′, a fare la storia del calcio italiano: il numero 10, otto minuti dopo aver regalato l’assist per il gol del pareggio (collo destro e palla all’angolino), riconquista il pallone a centrocampo (una delle poche palle rubate nella sua carriera, stando a Maldini) e lo consegna al brasiliano, che ha di fronte a sé una prateria disabitata: tiro, respinta del portiere Costa Pereira, di nuovo tiro e gol: il quattordicesimo di “Mazola“, cifra eguagliata soltanto da Lionel Messi nel corso della Champions League 2011-2012.

In Italia, a causa di un problema con i collegamento dall’Inghilterra, a commentare il momento cruciale per la Rai, seppur in differita, è il grande (e milanista) Beppe Viola. A Londra, sul prato di Wembley, il terzino Mario David se la cava con un: “Se non facevi gol, ti ammazzavo“. Venticinque minuti dopo, il Milan è la prima squadra italiana campione d’Europa. I tifosi in campo, inseguiti dai poliziotti, gli abbracci, Maldini che alza la coppa, il rientro trionfale a Milano, un milione di lire cadauno come premio per la vittoria, gli elogi della stampa inglese a Rivera, miglior calciatore d’Europa secondo il Daily Mirror. E quell’undici da mandare a memoria: Ghezzi-David-Trebbi-Benitez-Maldini-Trapattoni-Pivatelli-Sani-Altafini-Rivera-Mora.

fonte: La Stampa, l’Unità, Il Guerin Sportivo

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