Come è bello fare gol da José Mari in poi: gli spagnoli al Milan

Milan v Napoli

Vivo a Gallarate, gioco nel Milan: sono un uomo felice e non ho problemi (Javi Moreno)

Javi e José, la rivincita dei peones del Milan: Visto che non eravamo poi così scarsi?. Così titolava il Corriere della Sera all’indomani di Lazio-Milan 2-3 del 16 gennaio 2002, di sicuro la partita più spagnola di sempre dei rossoneri, aperta da un gol di José Mari e risolta da una doppietta di Javi Moreno. I due non avrebbero mai più segnato nella stessa gara e da lì a sei mesi avrebbero lasciato Milano, senza lasciare ricordi indelebili.

Se escludiamo Umberto Soldati, difensore nato a Madrid nell’anno 1900 da genitori italiani, cresciuto calcisticamente in Italia, 58 presenze tra il 1921 e il 1925, José María Romero Poyón è il primo spagnolo a giocare con il Milan. Arriva nel dicembre 1999 e sono decisamente altri tempi: per assicurarsi l’attaccante ventunenne dell’Atlético Madrid, visionato da Cesare Maldini e seguito anche dalla Roma, via Turati stacca un assegno da ben 38 miliardi di lire, mentre al giocatore ne vengono garantiti quattro a stagione fino al 2004. Del calciatore, nato e cresciuto a Siviglia e già parte dell’Under 21 spagnola, si dice sia un ragazzo timido e schivo e un grande appassionato di flamenco moderno; Sacchi, suo ex allenatore, lo definisce ‘moderno e interessantissimo, veloce, forte e coraggioso’, ma nega di averlo consigliato al Milan; per Claudio Ranieri è ‘una forza della natura, deve soltanto trovare più tranquillità in zona gol’. Il primo debutto avviene ancora nel Novecento: è il 30 dicembre 1999 e, mentre tutti pensano al Millennium Bug, il sivigliano segna una tripletta nel 6-1 inflitto in amichevole al Sant’Angelo Lodigiano. Gli inizi fanno ben sperare: alla seconda presenza ufficiale, proprio contro la Roma che aveva personalmente eliminato dieci mesi prima dalla Coppa Uefa e che l’aveva quasi acquistato, entra al 67′ e segna subito la rete del definitivo 2-2. Chissà cosa avrà pensato Nicolas Cage, quella sera presente a San Siro, dell’unico gol dei primi sei mesi milanesi di José Mari. Per il momento è sufficiente: Berlusconi ne parla come della ‘grande speranza spagnola’ e, come sua abitudine, sottolinea quanto gli sia costato in occasione di un incontro del Ppe a Madrid (“Se ci penso mi prende un collasso”).

Rotto il ghiaccio, il Milan pensa ancora alla Spagna e nell’estate del 2000, dopo un periodo di prova di quindici giorni, fa firmare un contratto quadriennale a Ivan Peñaranda, attaccante classe ’81 cresciuto nel vivaio del Barça. Ha giocato con Xavi, poi nel Mallorca B con Luque e Diego Tristán, piace a Baresi e si vanta di essere il primo catalano del calcio italiano: gioca nella Primavera di Tassotti e si allena con la prima squadra, dove può scambiare due parole con José Mari, Redondo e il poliglotta Leonardo. La sua presenza suscita anche l’interesse dei media iberici: Canal Plus sarebbe interessato a fare un reportage sui due spagnoli milanisti, ma l’ufficio stampa decide che il giovane Ivan non può, non gli farebbe bene. Non debutterà mai, accontentandosi di giocare un’amichevole con il Luino prima di lasciare, nel gennaio 2001, destinazione Sporting Gijón B, conservando un buon ricordo di Milanello (‘un’esperienza positiva’) per poi proseguire, sempre in prestito, con Sabadell, Santa Clara e Toledo. Un viaggio ai margini del calcio europeo che dura ancora qualche anno, per poi appendere gli scarpini al chiodo ancora giovane: oggi si occupa della sua scuola calcio.

José Mari, invece, è al Milan per restare, nonostante Milano, in campo e fuori, non sia Madrid e nemmeno Siviglia: ‘Vai alle dieci per cenare ed è già tutto chiuso. A Milano esco di meno e mi mancano gli amici. In Italia pensano solo al risultato: se vincono e giocano male, tutto è perfetto. Ci sono meno spazi, c’è moltissima pressione, anche i terreni di gioco sono meno curati e questo favorisce quelli a cui non piace giocare bene’. En Italia siempre hay que ganar, nota il buon José con un po’ di disagio, e il Milan 2000-2001 non vince sempre. Gli infortuni, prima la pubalgia, poi la caviglia, lo tengono spesso lontano dal campo: attaccante esterno  (ma Ancelotti userà anche a centrocampo), segna più in Champions League (9 presenze e 5 gol, uno al Barcellona in un simpatico 3-3) che in campionato (appena 2 gol su 21 apparizioni).

Prima di tornare in Spagna, José Mari ha il piacere di giocare per una stagione con un connazionale. Javier Moreno Varela, per brevità chiamato Javi Moreno, non è un giovane in attesa di esplodere, ma un ventisettenne, cresciuto nel Barcellona e salito alla ribalta con la maglia del Deportivo Alavés, con cui è arrivato terzo nella classifica cannonieri della Liga (dietro Raul e Rivaldo) e ha giocato un’indimenticabile finale di Coppa Uefa. Nella primavera del 2001 il Barça vorrebbe riportare a casa il bomber, ma il Milan agisce d’anticipo: pochi giorni dopo la finale persa con il Liverpool i primi contatti, poi Bronzetti appare al Camp Nou dopo una partita con i blaugrana per annunciare all’attaccante l’imminente trasferimento. Subito visite mediche, cinque miliardi all’anno al giocatore, 16.5 al club basco, acquisto benedetto da Cesare Maldini e Arrigo Sacchi. A Galliani ricorda ‘un po’ Gerd Müller e un po’ Boninsegna’ e Terim lascia intendere di credere molto nel Ratón. Le cose, però, nonostante i cross di Cosmin Contra, già compagno di Moreno a Vitoria, non vanno come dovrebbero andare: a gennaio sembra tutto fatto per il passaggio all’Atlético Madrid, ma qualche gol dello spagnolo convince la società a crederci ancora. Il buon Javi, accompagnato dalla moglie Raquel e della figlia Leyde, si ambienta da subito in Lombardia e, nonostante l’idea di andare alle feste in giacca e cravatta non lo faccia impazzire, fa amicizie, come rivelerà, dopo un gol in Coppa Uefa al Bate Borisov, mostrando sulla canottiera la scritta ‘gli amici di Gallarate sono con me’. Più nostalgico José Mari, anche lui stabilitosi a Gallarate (odia il traffico) e visitato spesso da parenti e amici dalla Spagna: ‘Ecco perché a casa mia pata negra e gazpacho non mancano mai’.

Chiuso da Shevchenko e Inzaghi, Javi Moreno, bomber da area di rigore, non fa polemica, ma nemmeno tace: ‘Io posso solo giocare quando me lo chiedono e fare il meglio che posso. Un attaccante che segni stando in panchina non l’hanno ancora inventato. E, partendo titolare solo in quattro partite, ho già fatto sei gol’. Galliani, che pure lo paragona a Papin dopo un gol allo Sporting Lisbona, lo bacchetta per qualche errore sotto porta nella semifinale di Coppa Italia con la Juve, mentre lo staff di Terim lo riprende per le abitudini alimentari (‘Ma come può pensare di dimagrire uno che mangia la pastasciutta col pane?) e il rapporto è complesso anche con la curva: a febbraio non perde l’occasione di un gol al Venezia per festeggiare zittendo gli ultrà, che lo invitano a mettere il dito da un’altra parte e ottengono, al momento della doppietta, scuse e lancio della maglia (qui l’emozionante radiocronaca Rai dell’incontro).

Finita la stagione, dopo 9 gol in 27 presenze Javi Moreno fa le valigie per la Spagna, ceduto all’Atlético Madrid in un pacchetto che comprende anche Fabricio Coloccini, Cosmin Contra, Demetrio Albertini e José Mari: per quest’ultimo, che con 75 presenze e 14 reti è l’uomo dei record tra gli spagnoli rossoneri, una scelta dovuta anche a motivi familiari. Il padre, cui era stato dedicato il gol alla Lazio (‘Para ti viejo’), è gravemente malato.

Dopo Villarreal, Betis, Gimnástic di Tarragona e Xerez, José Mari si è ritirato nel 2013; l’altro J.M, rimasto un anno in più con i colchoneros, ha giocato per Bolton e Real Saragozza prima di scendere nelle categorie minori con Córdoba, Evissa e Lucena. Lasciato il calcio giocato nel 2010, oggi allena il CD Utiel, squadra in cui hanno militato il papà e il nonno: ha appena conquistato la salvezza in Tercera Division, ha bei ricordi di Maldini e Gattuso e pensa di aver sbagliato a lasciare il Milan, perché il secondo anno sarebbe andato meglio.

Passa quasi un decennio prima che il Milan torni a fare la spesa al di là dei Pirenei. Nel frattempo la nazionale spagnola è passata da eterna incompiuta a massima potenza mondiale e, finita l’epoca dei De La Peña e dei Mendieta, si guarda in casa del Barcellona, alla ricerca di un qualsiasi prodotto della Masia. Come il classe ’92 Adrià Carmona Pérez, che nell’estate 2010 arriva a Milano con un Europeo Under 17 nel curriculum: cresciuto come esterno offensivo, viene usato come trequartista o seconda punta. Pur allenandosi con la prima squadra, e venendo convocato qualche volta, non arriva mai al debutto: per lui quattro amichevoli (Milan rossonero-Milan bianco, il derby al Trofeo Tim e due scampagnate con Solbiasommese e Gozzano). Si fa notare più che altro per le interviste ai quotidiani sportivi catalani, dove racconta le difficoltà a imporsi nel calcio italiano e il rapporto con Ibrahimovic (‘Un po’ seriamente e un po’ per scherzo penso di stare con la prima squadra grazie a Ibra’). A gennaio del 2013 viene ceduto in prestito al Saragozza, dove scende in campo tre volte per un totale di 54 minuti. Lasciato libero dal Milan, passa una stagione al Girona, seconda serie spagnola e in estate è passato all’Espanyol B, dove spera di rilanciare la carriera (anche se passare da Ibra a Pirulo in meno di due anni non deve essere facile).

Dall’Espanyol proviene anche Dídac Vilá, anche lui catalano, ma più fortunato: è riuscito a debuttare con la prima squadra e, se i lettori promettono di non ridere, si può dire che sia l’unico spagnolo ad aver vinto un trofeo con il Milan. Certo, forse quell’unica presenza con la maglia rossonera sul campo dell’Udinese, a campionato ormai vinto, non è stata fondamentale per il diciottesimo Scudetto, ma questo è quanto c’è da dire sul terzino di Mataró, arrivato nel gennaio del 2011 per passare gli anni seguenti tra panchine, Espanyol, pubalgia e Betis Siviglia (e ancora non si conosce la prossima tappa).

Infine, prima di Diego López, primo portiere spagnolo e primo galiziano a giocare per il Milan, e di Fernando Torres, oggetto del desiderio milanista per più di un decennio, c’è Bojan Krkic, preso in prestito da un Milan orfano di Ibrahimovic e Thiago Silva nei giorni finali del calciomercato estivo del 2012. Arrivato dopo un anno a Roma, il folletto di Linyola capisce nella sua unica stagione rossonera che la parabola discendente è iniziata e tornare indietro sarà piuttosto difficile: 27 presenze, soltanto tre gol, tutti nella prima parte di stagione (contro Chievo, Roma e Siena), e un contributo più che trascurabile alla rimonta che porta la squadra a qualificarsi in Champions League.

Fonti: Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa, la Gazzetta dello Sport, Mundo Deportivo, AS, El Pais

Marco Maioli Follow @marcomaioli1

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Scritto da il set 4 2014 . Registrato sotto Amarcord, Blog, In evidenza, iphone focus, News, Personaggi .

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