LA LETTERA DEL TIFOSO: "Parabola del giocatore prodigo!" di Mauro

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Disse ancora: «Un uomo aveva una squadra di calcio. Il più bravo di loro disse al presidente: “Dammi la parte dei beni che mi spetta”.
 Ed egli divise fra loro i beni. Di lì a poco, il più giovane bravo che deliziava le masse con tocchi lucenti e incursioni galattiche, messa insieme ogni cosa, partì per il paese iberico, e andò in una squadra diretta da un maligno che rispondeva al nome spregevole di Merdigno e vi sperperò i suoi talenti, vivendo male perché a contatto con quel pusillanime di tecnico.

 Quando ebbe finito e speso tutte le energie senza aver in cambio alcunché, in quella città venne una gran carestia di gioco perché l’acerrima rivale di quella squadra cominciò a giocare benissimo, retta da un altro Messi ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno e nella solitudine. Allora si mise in contatto con il suo padre putativo Adriano, il quale lo mandò nei suoi campi a cercare di risollevarsi mentre il Maligno Medigno lo voleva mandare a pascolare i maiali. Ed egli avrebbe voluto giocare con i maiali, perché per lui il gioco della palla era la vita.

 Allora, rientrato in sé, disse: “Quanti giocatori dal mio presidente hanno palle in abbondanza e io qui muoio di solitudine? Io mi alzerò e andrò dal mio presidente, e gli dirò: presidente, ho peccato contro il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo giocatore; trattami come uno dei tuoi raccattapalle. Egli dunque si alzò e tornò dal suo presidente; ma mentre egli era ancora lontano, il suo presidente lo vide e ne ebbe compassione: corse, gli si gettò al collo, lo baciò e ribaciò. E il figlio gli disse: “Presidente, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo giocatore”.

 Ma il presidente disse ai suoi giocatori: “Presto, portate qui la divisa più bella, e rivestitelo, mettetegli lo scudo tricolore al petto e delle scarpette ai piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, nella mia casa in Sardegna perché questo mio giocatore era morto ed è tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato”. E si misero a fare gran festa.

Or il giocatore maggiore e più sanguigno, Ringhio si trovava nei campi a Milanello, e mentre tornava, come fu vicino a via Turati, udì la musica e le danze. Chiamò Abate uno dei più piccoli giocatori, e gli domandò che cosa succedesse. Quello gli disse: “È tornato nostro fratello e il presidente ha ammazzato il vitello ingrassato, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si adirò e non volle entrare e in calabrese imprecò molto; allora il suo presidente uscì e lo pregava di entrare. Ma egli rispose al presidente: “Uè Cumpà, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando, ho combattuto in campo e fuori, ho mangiato peperoncino per anni per avere la forza immensa che mi ha fatto diventare un baluardo nel mondo; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici a Corigliano Calabro; ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi talenti con Merdigno, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato”.

 Il Presidente gli disse: “Ringhio, tu sei sempre con me e ogni cosa sportiva che è mia è anche tua; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto in terra di Spagna ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato e con lui riconquisteremo il mondo intero alla faccia del maligno Merdigno.

Mauro

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