MN VI LEGGE IO, IBRA – L’epilogo più dolce, la "marcia su Roma", la verità su un episodio poco chiaro…

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Nono e ultimo appuntamento: Milannews.it vi legge “Io, Ibra”, l’autobiografia di Zlatan Ibrahimovic

05.12.2011 10:00 di Francesco Somma   articolo letto 365 volte

© foto di Alberto Fornasari

Un libro che ha fatto scalpore, ma è anche riuscito a portare sotto i riflettori un personaggio di dominio pubblico, amato e osannato dai suoi tifosi, criticato e detestato da gran parte delle squadre che se lo ritrovano contro. Zlatan Ibrahimovic e il suo libro, un’opera letteraria che è riuscita a portare a galla il vero Ibra, quello che si vede meno o che non si vede affatto: quello che adora Mourinho e scalcia gli armadietti di fronte a Guardiola nella prigione di vetro Barça. Quello che ha vissuto un’infanzia disadattata e misera, nel cuore della periferia multietnica di Malmoe, in Svezia. Quello che ha raggiunto il successo rifiutandosi di dare ascolto a chi lo considerava diverso e gli chiedeva di cambiare, e che viceversa si è trovato a perfezione quando ha avuto a che fare con chi l’ha accettato così com’è, e gli ha affidato responsabilità pesanti. “Mi piace sentirmi importante, la pressione mi carica”, ha dichiarato Zlatan a più riprese nel corso di “Io, Ibra”. Le responsabilità non sono mancate nemmeno all’arrivo in rossonero, che è stato tutt’altro che semplice, date le condizioni dettate dal Barcellona. Ibrahimovic era passato in blaugrana per 66 milioni di euro, andava d’accordo con la dirigenza e con la squadra, ma non con l’allenatore Pep Guardiola: tra i due i rapporti si sono incrinati fin troppo presto, fino a quando lo svedese non ha maturato la convinzione di voler andar via. Lasciare il club del momento dopo essere arrivato in pompa magna non è facile: se accade, nell’estate del 2010, il merito è tutto di Mino Raiola. Un genio, un uomo a cui il n.11 deve gran parte del proprio successo. Fu un bluff, ma ponderato ed efficace. Rosell: “C’è qualche club in particolare in cui vorresti andare?”. “In effetti sì, dissi”. “Bene, molto bene”, si illuminò Rosell: “E quale sarebbe?”. “Il Real Madrid”. Rosell impallidì: “Impossibile, qualsiasi squadra ma non il Real”. Una mossa geniale: da quel momento Ibra e Raiola prendono il pallino del gioco e cominciano a dettare le regole, perché più Rosell era costretto a vendere, più era vantaggioso acquistare Ibrahimovic, già in trattativa con il Milan. Alla fine arrivò in rossonero per la cifra di 20 milioni, un affare d’oro per il Milan, uno smacco clamoroso per il Barcellona, costretto ad una grave perdita dai continui malintesi tra il centravanti e Pep Guardiola.
Poco male per il Milan: “Quando atterrammo a Linate era come se fosse dovuto arrivare Obama: c’erano otto Audi allineate davanti a noi e fu steso un tappeto rosso, io uscii con Vincent in braccio. Indossavo una camicia nera aderente e gli occhiali da sole. Uscimmo dall’aeroporto, attraversammo la città verso il centro e c’era il delirio, giuro, c’erano macchine e motociclette e telecamere a inseguirci. Quell’accoglienza mi caricò, l’adrenalina pompava e capii ancora di più in quale buco nero fossi vissuto al Barça. Mi sembrava di essere uscito da una prigione e di aver trovato ad accogliermi una grande festa. Quando vidi i ragazzi del club provai la stessa cosa: mi aspettavano tutti e tutti volevano una cosa, che mi assumessi delle responsabilità, che li guidassi nuovamente alla vittoria. Mi piacque subito ovviamente. Non c’era più nessun «Gioca per Messi», ma «Vieni qui e prendi il comando». Nel primo periodo milanese, la famiglia Ibrahimovic alloggia all’Hotel Boscolo, in pieno centro, dove ha a disposizione la suite più grande e comoda, e dove tutto è stato organizzato alla perfezione. Il giorno del ritorno a Milano di Zlatan è anche quello di Milan-Lecce, prima partita dello scorso campionato: “Prima della partita non volevo entrare negli spogliatoi e disturbare la concentrazione della squadra, ma proprio lì accanto c’è una sala d’attesa e lì mi sedetti con Galliani, Berlusconi ed altri pezzi grossi del club”. Ecco le prime parole che il n.1 rossonero rivolge al futuro n.11: “Tu mi ricordi un giocatore che ho avuto, un ragazzo che sapeva gestire le situazioni per conto suo”. Era ovviamente Marco Van Basten, una figura importantissima per la carriera di Zlatan Ibrahimovic, soprattutto durante il periodo olandese. “All’intervallo scesi in campo, dove avevano srotolato un tappeto rosso e allestito un piccolo palco. Finalmente uscii e intorno fu un boato, io tornai di nuovo come bambino. Avanzai in mezzo a quel frastuono assordante: «Quest’anno vinciamo tutto», dissi in italiano, e ci fu un altro boato fortissimo, lo stadio tremò. Era tutto pronto, avrei fatto in modo che il Milan vincesse di nuovo lo scudetto dopo sette anni. Un nuovo periodo di gloria stava per iniziare l’avevo promesso”.
E gloria fu, perché tutto si può dire di Ibrahimovic tranne che non sia stato di parola e risultato determinante ai fini della conquista del tricolore. Dall’emozione della prima rete in campionato con la maglia del Milan, alla terza giornata contro la Lazio, ai gol decisivi nel Derby e contro la Fiorentina, passando per la prodezza del Via del Mare. Fino ad arrivare al trionfo nella cornice dell’Olimpico e ad una festa bellissima. Ma questa è storia nota a tutti, di cui si può parlare a prescindere dalla lettura del libro. Sulle pagine della sua autobiografia Ibra racconta anche un episodio chiacchierato ma fino a questo punto mai rivelato pubblicamente nei dettagli. Si tratta della lite con Oguchi Onyewu, mastodontico difensore che non ha avuto fortuna in rossonero. “Si diceva che fosse il ragazzo più buono del mondo. Oguchi Onyewu aveva l’aspetto di un pugile categoria pesi massimi: alto circa due metri, pesava quasi cento chili. Ma con me non ingranava, mi dava contro.«Io non sono come gli altri difensori», mi disse”. “Ok, va bene!, ma continuava: «Non mi lascio condizionare dalle tue chiacchiere, da quella bocca che non sta mai chiusa. Guarda che ti ho visto in partita, tu non fai che martellare e martellare». Non soltanto perché ero stanco di tutti quei difensori, ma anche perché non sono io quello che continua a parlare, in campo io parlo un’altra lingua. Io non mi vendico con le parole ma con il corpo, e lo dissi anche a Onyewu, ma lui continuava come se niente fosse, accusandomi di parlare troppo, fino a quando un giorno mi stancai delle sue provocazioni e gli feci un’entrata a piedi uniti. Ma lui mi vide e fece in tempo a spostarsi: «Merda, l’ho mancato, lo beccherò la prossima volta». Ma quando mi alzai per andarmene ricevetti un pugno sulla spalla, e questa non fu per niente una buona idea, Oguchi, Onyewu. Gli risposi con una testata e scoppiò la rissa, non sto parlando di una zuffa qualsiasi. Volevamo farci a pezzi, fu uno scontro durissimo, eravamo due ragazzi di più di novanta chili e rotolavamo tirandoci ginocchiate e pugni, e naturalmente tutta la squadra si precipitò cercando di dividerci. La cosa più brutta successe dopo, perché Onyewu si mise in ginocchio sul campo a pregare con le lacrime agli occhi. Mi salì ancora di più la rabbia, la vedevo come una provocazione, e a quel punto mi si avvicinò Allegri: «Calmati, Ibra!». Lo spinsi da parte e corsi di nuovo verso Onyewu, ma venni fermato dai compagni e fu un bene, sarebbe potuta finire molto male…

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