Boston, una volta e nessuna

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C’era una volta in cui lo sport aveva intaccabile ed intoccabile sacralità. Non solo, c’era una volta in cui lo sport era sospirata pausa dai conflitti, dalle guerre, dalle beghe militari, politiche e sociali, dalle nefandezze del sangue. C’era una volta in cui i Giochi Olimpici, incarnanti la sacralità della contesa olimpica, bloccavano ogni altro tipo di contesa. Una volta in cui ogni guerra si fermava, il braciere era l’unico fuoco che divampava, e le colombe volavano.

Una volta.

 Il becero volto del terrore d’edizione XXI° secolo ha perso anche l’ultima parvenza di rispetto di ciò che è sacro, puro, inviolabile. Le prove generali erano state fatte ad Atlanta, nel ’96, quando in circostanze simili un ordigno era sto fatto esplodere al villaggio olimpico. Ieri il terrorismo, la cui individuazione di matrice è diletto semantico piuttosto vuoto, ha stuprato di nuovo lo sport, nella sua manifestazione più antica: la maratona.

Nacque quando Filippide, dalla piana di Maratona percorse gli oltre 42 chilometri che lo dividevano da Atene, per annunciare la fine della battaglia. Che ironia della sorte, che sberleffo infame da parte del terrorismo imbavagliato, che parla solo a suon di botti.

Botti che ammazzano chi corre, suda, gioca, in fondo. Una delle tre vittime era un bambino: vedeva il padre avvicinarsi alla linea d’arrivo della più massacrante delle sfide sportive, non ce l’ha fatta a non corrergli incontro per abbracciarlo, per dirgli, “bravo”.

L’agghiacciante e cieca mira della più imbecille delle lotte (Sociali? Politiche? Militari? Certamente idiote) si esprime così.

Non ci sono volte in cui si può tollerare lo scempio della vita non solo di civili, di sportivi, che combattono lealmente, con gambe che si muovono una davanti all’altra, col battito accelerato, con la fatica.
Nessuna volta questo deve sembrarci normale, accettabile, logico. Nessuna volta.

Fantagazzetta Network

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