di Ezio Azzollini
Chiariamoci: Luca Antonini è un professionista serio, con un attaccamento alla maglia e uno spirito di squadra che sono capaci di fare invidia ai più grandi mai passati da Milanello. E’ un atleta che con cuore ha cercato di dare il massimo per i colori, e che poi ha salutato il Milan con stile ed eleganza. Merita affetto e simpatia, e ha speso, e continua a spendere, parole belle per l’ambiente che ha appena lasciato: qualità sempre più rara, ogni riferimento a questo Pirlo o a quel Cassano è puramente voluto. E’ anche vero che l’esperienza di Luca Antonini al Milan è state spesso accompagnata da scetticismo piuttosto diffuso, da una discreta ironia da parte dei tifosi meno inclini alla poesia, da score avari di bonus quali gol o assist, da pochi memorabili acuti (si ricorda una epica sfida col Barcellona, tra le duecentosettatacinque degli ultimi anni). Siamo onesti, era difficile vederlo dalle parti della linea di fondo per prodursi in ariosi traversoni, ancor più difficile vederlo nel cuore dell’area. Questo è stato l’Antonini rossonero: un onesto terzino, lavoratore nelle retrovie, raro alle iniziative personali.
Bene, Antonini che al primo derby, appena staccata l’etichetta dello sponsor tecnico della sua maglia rossoblu ancora intonsa, segna in girata al volo nel cuore dell’area di rigore (avversaria!), che neanche l’Inzaghi dei tempi migliori, è anch’esso un segnale ironico del momento che è, con tutto l’affetto possibile.
E adesso veniamo a che momento è. L’umore è quello che suggerisce ai più polemici e pessimisti l’aforisma: “Benissimo, siamo tornati indietro di un anno”. Calma, non è il caso di perdere la testa. Quello di dodici mesi fa è un momento talmente drammatico e buio nel senso più tradizionale del termine che non va ripescato fuori neanche per scherzo, neanche per pessimismo, neanche per paragone iperbolico.
Il Milan, al suo punto zero, è andato avanti, un anno fa. Se proprio vogliamo essere precisi, il Milano lo scorso anno dopo 3 giornate aveva un punto in meno, ma non è neanche questo. Il Milan lo scorso anno non aveva Balotelli, trascinatore strano o quantomeno qualcosa a cui aggrapparsi lì dove la terra bricia, non aveva De Sciglio consacrato e Montolivo maturato, non aveva l’entusiasmo ritrovato del figliol prodigo prediletto riabbracciato, non aveva l’ottimismo inculcato da un preliminare di Champions superato, non aveva che Pazzini in attacco (lasciamo stare per un attimo come è andata e come la passione tra l’attaccante azzurro e i tifosi sia divampata, poi), non aveva sospetto dell’exploit di El Shaarawy di lì a poco, non aveva, o non sembrava avere, prospettive, non aveva identità, non aveva che lo shock degli addii. Non scherziamo. Non è un gran momento, la ricostruzione è un sentiero ancora impegnativo, certo, ma cancellare un anno di faticosi progressi come l’emotività suggerirebbe è inutile ed autolesionistico. Tornati a dodici mesi fa un corno: la ricaduta di un incubo neanche lontano parente della situazione attuale è sintomo di una crisi di panico di chi è ancora emotivamente convalescente.
E, per inciso, dodici mesi fa a Torino si sarebbe perso due a zero, si fosse stati due a zero all’ 88’. Guardiamo anche a questi, di segnali.
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