di Vittorio Polieri
Va bene l’orgoglio di appartenenza, ma all’indomani dell’ennesimo passo falso sotto i riflettori della più prestigiosa competizione per club, al tifoso resta veramente poco in cui credere. L’Atletico è apparso insuperabile per merito dei rossoneri in maglia dorata, deprecabile trovata pubblicitaria ed evidente schiaffo al buon gusto. Intollerabile la totale mancanza di agonismo, di coesione, di rivalsa nei confronti di una squadra di materassai, che pure ha rincorso ogni pallone fino al fischio finale, quasi fossero loro quelli a rischio eliminazione. La rete del momentaneo pareggio, siglata dal solo fuoriclasse presente in rosa, rende ancor più manifesto l’incolmabile divario fra la generazione attuale e quella alla quale dobbiamo gli ultimi squilli di tromba in campo internazionale, di cui l’impagabile Ricardo Kakà resta il solo, acciaccato depositario.
I demeriti saranno anche del collettivo, ma gli errori individuali sono sotto gli occhi di tutti. La passività di Abbiati è disarmante, ammira imbambolato le prodezze degli avversari come se fosse (stra)pagato per quello, inconsapevole d’essere ancora l’estremo difensore rossonero e non già un feticcio da Museo delle Cere. I centrali di difesa sbagliano le giocate più elementari: emblematico che, in occasione della rete di Arda Turan, l’insuperabile Bonera abbia avuto tutto il tempo di sbracciarsi e richiamare i compagni di reparto, anziché scagliarsi per primo alla caccia del pallone come insegnano ai campioncini imberbi nelle scuole calcio. Agghiacciante la prova di Essien, in un centrocampo tutto muscoli e niente cervello. Uno come Jorginho è costato al Napoli appena 5 milioni, altri 5 verranno versati per esercitarne il riscatto: quale logica sottende, invece, all’acquisto di un trentunenne epurato da Mourinho e schierato col contagocce per preservarne la precaria condizione fisica? Il parametro zero non c’entra un bel niente, tenuto conto che per uno come Zapata sono stati sborsati 6 o 7 milioni di euro… E poi c’è lui, il centravanti che gioca sulla trequarti lasciando sguarnita l’area di rigore. Balotelli è un calciatore geniale, il passaggio smarcante per Poli in occasione del gol di Kakà è pura poesia, ma diventa anomalia nell’ottica di novanta minuti giocati col freno a mano, a caccia dell’inevitabile ammonizione anziché del gol che avrebbe riaperto i giochi. Qualcuno lo dice in partenza, qualcun altro si limita a criticarlo, ma trovargli la collocazione giusta sarebbe già un buon punto di (ri)partenza. La maturità verrà da sé.
Dopodiché tutta una serie di comprimari, dai terzini fondisti ma incapaci di mettere un solo cross decente alle amnesie del marocchino che dimentica il talento a Milanello e prende a galleggiare un po’ dove gli pare, guadagnando anzitempo la via degli spogliatoi. E Robinho e Pazzini, uno da mesi con le valigie in mano e l’altro condannato a non far rimpiangere Inzaghi, che, per inciso, avrebbe mostrato a Miranda e Godìn che cos’è il calcio e dove sta di casa. Ma guardare al passato sarebbe nocivo, oltre che per una sorta di autolesionismo, anche per il rischio di incorrere nell’interismo, quella brutta malattia che ti porta a vantare il Triplete almeno una volta al giorno, con la speranza malcelata di contare qualcosa nel calcio dei grandi. E il Milan, che grande non lo è più ma ha il dovere di tornare ad esserlo, dimostri perlomeno di meritare le nostre imprecazioni, i sudori freddi, il battito accelerato, la fedeltà incondizionata che forse sopravvivrà anche a questa crisi, ma che probabilmente vacillerebbe se continuassero a raccontarci che la musichetta della Champions cambia davvero i valori in campo. Se non altro, adesso che di quella musichetta dovremo farne a meno, sapremo sul serio di che pasta siamo fatti.
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