di Ezio Azzollini
Quando la fisiologica e pleonastica ciliegina sulla torta di fine anno, ciliegina di cui non si sentiva bisogno, si chiama Paolo Maldini, ma proprio Paolo Maldini, si comprende quanto può essere orribile un annus horribilis, chiuso con la sua intervista di ieri alla Repubblica.
Ora, detto che l’intervista è stata rilasciata non esattamente a un giornale sportivo, ma anzi ad un giornale antiberlusconiano per natura e per stesso battesimo, alla vigilia della contesa elettorale, e che dunque si tratta di una intervista facilmente strumentalizzabile con titoli accuratamente selezionati ad hoc (ma questo rappresenta soltanto un’aggravante e non un alibi per l’uomo che più di ogni altro incarna il Milan) resta l’aria di bruttura e ulteriore delusione della quale, ripetiamo, francamente non si sentiva il bisogno, in un momento come questo. Perché, deontologia di Repubblica a parte, la classe impareggiabile che a Paolo si è sempre riconosciuta in tutto il mondo, dovrebbe voler dire anche, se hai un sassolino nella scarpa, togliertelo quando il periodo è neutro e non favorevole, e non banchettare su una carcassa, per giunta utilizzando ingenuamente un giornale al quale di te e del Milan non frega nulla, ma frega soltanto di far il proprio gioco politico.
E non è soltanto per il succo della questione, che c’è e c’è tutto, perché attorno al concetto che eravamo un sogno e adesso siamo solo una squadra, Canale Milan va scrivendo in ogni salsa, con ogni parola e (quasi) in ogni pezzo da maggio a questa parte. Dire “eravamo un caso unico di emozioni e familiarità, ora siamo normali”, ci sta tutto, dunque non è tanto questo. Quanto i particolari.
Perché non è da Maldini svelare cose private e magari poco edificanti, come “Allegri mi ha cercato perché non sapeva che fare con lo spogliatoio e aveva alcuni dubbi tattici”. Non è da Maldini dire, in soldoni, che non vuole altri posti se non quello di Galliani (se il metro di paragone è Butragueno), e si meraviglia che Galliani non glielo dia a piè pari, tra grandi sorrisi e strette di mano. Chiariamo: Paolo ha ragionissima, l’inizio della fine è stato tagliare fuori ogni identità rossonera dal presente di questa squadra, ogni guida per i giovani, ogni bocca carismatica che facesse capire a chi vive il presente del Milan di che storia è entrato a far parte. Storia che una volta era unica. Ma il quando, il dove, il come di queste dichiarazioni, per giunta condite da particolari francamente ineleganti, rappresentano un tackle scellerato che il Paolo Maldini che conosciamo non avrebbe mai fatto.
E capire quanto tutto di quel sogno sia andato in vacca, capirlo una volta in più per colpa (anche) di Paolo Maldini e della sua caduta di stile, fa male. Tanto. La sensazione che tra lui e il Milan ci sia qualcosa di non detto ma forse deflagrato c’è. C’è da un bel po’, ed è diventata acclarata quando la società non spese mezza parola sulla vergognosa contestazione nel giorno del suo addio da parte di imbecilli comuni, facendosene correa, anche perché è difficile escludere che qualcuno sapesse. Per cui, quello di ieri sulle pagine della Repubblica, era un episodio di cui non si sentiva bisogno. Denota poca serenità non solo in chi è nel Milan, ma anche in chi c’è stato. Fa toccare un fondo che più fondo non si può. Anche perché, diciamocelo, nella contesa di cui sopra, iniziata da quegli imbarazzanti ed ingrati fischi e dal silenzio assordante che li seguì, la stragrande maggioranza della gente rossonera si sarebbe schierata, ma neanche a pensarci un secondo, con Paolo. Fino ad oggi.
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