A Fuenlabrada, città a una ventina di chilometri da Madrid, c’è uno stadio. Si chiama Fernando Torres, proprio come il giocatore. Lui all’inaugurazione, nel 2011, non c’era: era con la nazionale, a tagliare il nastro hanno dovuto pensarci Atlético Madrid e Fuenlabrada, la squadra di casa allenata per qualche mese, nel 2012-2013, da Cosmin Contra, altro ex Milan e ex Atlético Madrid.
Fernando Torres, che di Fuenlabrada è il cittadino più illustre, prima o poi avrebbe giocato nel Milan. Non è mai stata una questione di se, ma di quando, perché le prime voci che accostano l’allora club di via Turati all’attaccante si perdono nella notte dei tempi e nessuno si stupirebbe se si scoprisse che Ariedo Braida l’aveva notato nei tardi anni ottanta su una spiaggia della costa galiziana, dove il Niño, quando era Niño di fatto e non di nome, passava le vacanze estive.
Il primo incontro documentato risale al 1996: dodicenni di Atlético Madrid e Milan si affrontano su campo ridotto, sette contro sette. Vincono i piccoli colchoneros per 4-0 e il numero 9, biondo con pettinatura da bravo bambino, mette a segno una doppietta. Cinque anni dopo, pochi mesi dopo aver fatto il suo debutto nella seconda serie spagnola, Torres è già il pezzo pregiato delle giovanili del club: nel novembre 2001 Juve, Inter, Milan, Lazio e Roma sono interessate, ma l’Atlético non ne vuole neanche parlare. Tutto questo per un giocatore che non è ancora diciassettenne, ma che ha già fatto aumentare del 30% le vendite della magliette bianche e rosse.
Scorrono le settimane, ma il Milan non perde di vista l’obiettivo. Nel gennaio del 2002 Braida è di nuovo in azione: c’è un altro spagnolo, Javi Moreno, che potrebbe tornare in Spagna e il direttore sportivo prova a imbastire uno scambio con l’Atlético Madrid. Futre dice di no, poi il Ratón trova il gol contro la Lazio e convince la società a tenerlo. Il Milan comunque non smette di pensare al Niño e a febbraio, mentre a Madrid qualcuno si preoccupa di una clausola rescissoria forse troppo bassa, 90 milioni di euro, è pronto a mettere sul piatto un Contra, un Coloccini, un Serginho, anche un Pirlo, pur di ottenere almeno un’opzione sull’attaccante. Braida e Bronzetti, sempre presente quando si parla di Spagna, si riuniscono in marzo, convinti di poter convincere Futre: e in estate, in effetti, una trattativa c’è, ma riguarda Coloccini, Javi Moreno, José Mari e Albertini, tutti passati in blocco da Milano a Madrid. Galliani, al Calderòn per concludere l’operazione, incontra il giovane attaccante, di passaggio allo stadio quel giorno, ma il matrimonio non s’ha da fare: Nando resta e fa il suo debutto nella massima serie a soli diciotto anni.
A fine settembre già si parla di Torres come dell’erede di Shevchenko, un Van Basten spagnolo per cui fare follie. Albertini lo consiglia apertamente al Milan, tessendo alla Gazzetta dello Sport le lodi del suo compagno di squadra, che gli ha chiesto informazioni ed è, a suo dire, molto attratto dall’idea del Milan. Ariedo Braida non si nasconde: “Fernando Torres è un gran calciatore e, anche se al momento non pensiamo a lui, è una possibilità per il futuro. Ora è molto presto per trattarlo, ma in futuro…La clausola non è un problema”. Dalla Spagna rispondono piccati: stanno facendo diventare matto il ragazzo, così non si può andare avanti, lasciateci in pace.
Ma al Milan non ascoltano le lamentele di Gil e a febbraio 2003 sono di nuovo alla porta. Mentre, in anticipo di quasi un decennio sul noto tormentone estivo, il Corriere della Sera si chiede chi sia il Mister X promesso ai tifosi da Galliani per l’estate successiva (“avrà piedi buoni e testa a posto”), Ancelotti chiarisce di non volere Beckham (“Non è certo il mio giocatore ideale. Non mi sembra che ne valga la pena”) né Fernando Torres (“Ma no, allora abbiamo Borriello“). A marzo la partita tra Real Madrid e Milan è un’altra buona occasione per fissare un appuntamento con l’Atlético, a maggio si parla di un viaggio nella capitale spagnola di Galliani e Braida, pronti a inserire nelle trattative uno a scelta tra Dida, Kaladze, Costacurta e Laursen. Ma l’estate finisce e, nonostante un Milan insistente, che non cessa di suonare al citofono con il catalogo dei propri giocatori in mano, Torres è ancora a Madrid.
Nel 2004 chi ancora non si era accorto di Torres deve fare i conti con la sua figura: segna il suo primo gol con la nazionale, proprio contro l’Italia, in occasione della partita d’addio di Roberto Baggio, e viene convocato per gli Europei in Portogallo: per Gianni Mura è “raro vedere tanta eleganza in una punta di alta statura” e l’accostamento con Van Basten è “inevitabile”. Il mondo intero conosce Torres e vuole comprarlo, ma il Milan può vantare un credito di ben 23 milioni di euro nei confronti dei colchoneros: lasciateci il biondo e tenete pure il resto. Ma neanche il famoso credito, che assume presto un alone mitologico in quell’estate nota anche per la nascita del tormentone Luis Fabiano, basta a portare l’attaccante a Milano.
Se ne riparla due anni dopo, con il Milan ormai orfano di Shevchenko e un po’ di soldi da spendere. Torres sembra l’erede designato, l’uomo giusto al momento giusto: sono pronti 30 milioni di euro, si dice, ma è Galliani stesso a porre fine alle voci: “Sono troppo amico del presidente Gil per fargli uno sgarbo”.
E così sia: quando l’estate successiva Abbiati si trasferisce in prestito oneroso all’Atlético Madrid, qualcuno ci vede il primo passo per arrivare a Torres. Ma siamo ormai nel 2007, Nando ha giocato un mondiale, ha segnato tre gol e il Milan post-Atene è forse troppo triste per un attaccante in rampa di lancio.
Lo porta a casa il Liverpool di Benítez e, se non sapessimo che certi amori non finiscono eccetera eccetera, potremmo pensare di averlo perso per sempre. Torres segna, segna tantissimo, più di quanto avesse mai segnato prima; nel 2008 vince l’Europeo con la Spagna segnando anche il gol decisivo in finale, è un eroe, un simbolo, è “una icona gay” e “lo specchio di un paese giovane e rampante, ambizioso e in perenne corsia di sorpasso”, almeno secondo il Corriere della Sera, è “il simbolo della prima generazione di spagnoli alti e biondi“, o così è convinto Javier Cercas. Forse nel Merseyside non vince altrettanto, ma ascolta i cori dei tifosi e ispira campagne pubblicitarie. Fino all’estate del 2010, quando i gol diminuiscono e i trofei iniziano a piovergli tra le mani: viene da una stagione complicata, con un’operazione al ginocchio, e in Sudafrica fornisce una serie di prestazioni tra l’anonimo e l’imbarazzante, mentre la stampa lo descrive come un uomo triste e sconsolato.
Sei mesi dopo lo compra il Chelsea per 50 milioni di sterline e il resto è storia: Torres tira meno, segna meno gol, ma in compenso porta a casa l’Europa League, la Champions League, un altro europeo. Mette a segno anche qualche rete importante, ma resta un personaggio minore, quasi l’ombra di sé stesso, ignorato se non fosse per le inevitabili prese in giro dei tabloid. Arriva in un Milan in crisi come lui e come la Spagna di cui era il simbolo: comunque vada, non potremo scambiarlo per Javi Moreno.
Fonti: Corriere della Sera, Repubblica, AS
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